Cassazione penale, sezione V, sentenza 13 maggio 2019, n. 20507 - Reati in materia di pubblica fede -
Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, è opportuno qui ricordare che l′art 495 c.p., sotto la rubrica Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri, punisce con la reclusione da uno a sei anni, la condotta di chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l′identità, lo stato o altre qualità della propria o dell′altrui persona. La reclusione non è inferiore a due anni: 1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello stato civile; 2) se la falsa dichiarazione sulla propria identità, sul proprio stato o sulle proprie qualità personali è resa all′autorità giudiziaria da un imputato o da una persona sottoposta ad indagini, ovvero se, per effetto della falsa dichiarazione, nel casellario giudiziale una decisione penale viene iscritta sotto falso nome.
La condotta tipica consiste in una falsa dichiarazione o attestazione; si ritiene che il legislatore abbia voluto riferirsi con la dichiarazione ai contrassegni personali propri e con l′attestazione ai contrassegni personali altrui (cfr. Pagliaro, Falsità personale, in ED, XVI, Milano, 1967, 649). La falsa dichiarazione o attestazione può essere scritta o orale, spontanea o provocata dal pubblico ufficiale (Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VI, Torino, 1986, 989), ma non si può fondare su un contegno meramente passivo come il silenzio o la reticenza, perché la falsità deve manifestarsi in modo espresso. Secondo la giurisprudenza, il reato può configurarsi anche in presenza di dichiarazioni implicite, allorquando il possesso di determinate qualità personali costituisca il presupposto necessario ed indefettibile della dichiarazione espressa resa al pubblico ufficiale (Cass. pen. sez. V, 6/7/2017, n. 40839; Cass. pen. sez. III, 14/5/2015, n. 30862, che ha escluso il reato in un caso di asseverazione innanzi al cancelliere della perizia estimatoria di un terreno da parte di persona priva della qualifica di ingegnere abilitato). Anche la mera presentazione del passaporto all′autorità preposta al controllo integra il reato perché equivale a declinare le proprie generalità in conformità alle indicazioni contenute nei predetti documenti di identificazione (Cass. pen. sez. V, 23/3/2012, n. 22585). La condotta dell′indagato che, colpito da mandato di arresto internazionale, fornisce false generalità alla polizia giudiziaria che procede alla sua identificazione (Cass. pen. sez. V, 5/2/2014, n. 15654). Integra il reato la condotta di colui che, privo di documenti di identificazione, fornisca ai carabinieri, nel corso di un controllo stradale, false dichiarazioni sulla propria identità, considerato che dette dichiarazioni - in assenza di altri mezzi di identificazione - rivestono carattere di attestazione preordinata a garantire al pubblico ufficiale le proprie qualità personali (Cass. pen. sez. V, 26/11/2014, n. 7286). Integra il reato la condotta di colui che rende molteplici dichiarazioni, tutte fra loro diverse, in ordine alle proprie generalità, non rilevando, a tal fine, il fatto che non sia stato possibile accertare le vere generalità del dichiarante e che questi, in una sola delle molteplici occasioni, possa, eventualmente, avere detto il vero (Cass. pen. sez. V, 23.11-28/12/2017, n. 57755; Cass. pen. sez. V, 9/5/2017, n. 29874; Cass. pen. sez. V, 22/10/2014-19/2/2015, n. 7712). La falsa dichiarazione o attestazione deve essere resa in un "atto pubblico", o almeno destinata a essere riprodotta in un atto pubblico, e deve avere ad oggetto l′"identità", "lo stato" o altre "qualità" della propria o dell′altrui persona. Sul concetto di "altre qualità", l′art. 495 non richiede, a differenza dell′art. 494, che esse producano "effetti giuridici"; ciò significa che non è necessario che gli effetti giuridici dipendano immediatamente dall′attribuzione della qualità nell′atto pubblico in questione: basta una mera potenzialità di effetti giuridici (così Pagliaro, 649).
Sulla particolare destinazione della falsa dichiarazione sulla propria identità come elemento qualificante del delitto de quo si era pronunciata in passato anche la giurisprudenza, distinguendolo rispetto dalla diversa fattispecie di false dichiarazioni sulla propria identità (art. 496) proprio perché, in base all′art. 495, la falsa attestazione delle proprie generalità deve essere riportata necessariamente in un atto pubblico. Pertanto, si riteneva integrasse la fattispecie in esame la condotta di chi falsamente dichiara la propria identità alla polizia giudiziaria all′atto della redazione di un verbale di identificazione, in quanto tali dichiarazioni diventano parte integrante del predetto verbale e del cartellino foto segnaletico (Cass. pen. sez. I, 15/11/2007, n. 43718); integra il reato (nella formulazione antecedente al 2008) la condotta di chi dichiari un falso nome nel corso di una perquisizione, essendo tale dichiarazione destinata ad essere trasfusa in un atto pubblico (Cass. pen. sez. V, 20/7/2016, n. 36834). Nello stesso senso, la Cassazione tendeva, poi, ad escludere l′applicazione dell′art. 496, ravvisando invece una responsabilità in base all′ult. co. della norma in esame, allorquando si omettesse di indicare, nell′apposito modulo di richiesta del passaporto, l′esistenza di eventuali precedenti penali, salvi i casi in cui la falsità non abbia alcuna attinenza, né diretta né indiretta, con la formazione di un atto pubblico, inteso in senso lato (Cass. pen. sez. V, 4/12/2007, n. 4420). Tali orientamenti sembrano, però, destinati a mutare proprio alla luce del recente intervento legislativo (D.L. 23/5/2008, n. 92 convertito in L. 24/7/2008, n. 125) con cui si è eliminato ogni riferimento, all′interno dell′art. 495, all′atto pubblico. Successivamente all′intervento legislativo: Cass. pen. sez. V, 26/11/2014, n. 5622, secondo cui integra il reato la condotta di chi fornisce false generalità alla polizia ferroviaria all′atto della redazione di un verbale di identificazione, in quanto tali dichiarazioni diventano parte integrante del predetto verbale che costituisce atto pubblico. Piuttosto, la distinzione tra le due fattispecie - e, quindi, il significato della clausola di sussidiarietà di cui sull′incipit dell′art. 496 - sembra oggi potersi rintracciare unicamente nel fatto che, ai sensi di questa disposizione, il soggetto dichiara il falso, solo in quanto interrogato sulla identità, sullo stato o su altre qualità della propria o dell′altrui persona. Sul punto, occorre tuttavia rilevare che la Relazione dell′Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione sulla L. 24/7/2008, n. 125, ha negato a tale requisito di fatto la natura di elemento specializzante rispetto alla fattispecie di cui all′art. 495, non riconoscendogli la capacità di neutralizzare la clausola di sussidiarietà contenuta nel successivo art. 496 (sul punto si veda Mereu, Zannotti, Il c.d. "decreto sicurezza": profili di diritto sostanziale, in GM, 2009, I, 19). Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte d′Appello aveva confermato la sentenza del Tribunale con cui l′imputato era stato dichiarato colpevole dei reati di false dichiarazioni a pubblico ufficiale ed uso di patente falsa. Ricorrendo in cassazione, imputato sosteneva che la fattispecie di falsa attestazione a un pubblico ufficiale sulla identità o sulle qualità personali proprie prevede, per la sua sussistenza, che vi sia stata una dichiarazione o una attestazione e non una mera esibizione o utilizzo di un documento, come accaduto nel caso di specie. Nella sentenza di merito si comprendeva però che l′attribuzione delle false generalità all′imputato non fosse da ricondurre a false dichiarazioni o attestazioni dello stesso, ma solo all′esibizione della patente di guida che non sarebbe comunque documento idoneo da solo a provare l′identità personale del suo possessore.
La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha invece osservato che nel caso di specie, emergeva dalla motivazione della sentenza la sussistenza del reato, avendo l′imputato esibito la patente falsa con la evidente finalità di fingersi altra persona, dichiarando in tal modo diversamente dal vero i propri dati identificativi, per evitare che si scoprisse che invece gli era stata revocata l′autorizzazione amministrativa alla guida. Il reato si consuma, peraltro, nel momento in cui le false dichiarazioni vengono rese, indipendentemente dalle circostanze che il pubblico ufficiale possa accertare o meno la qualità personale del dichiarante, ovvero che il pubblico ufficiale - constatata la falsità delle dichiarazioni - non le inserisca nell′atto o le inserisca con la menzione delle opportune verifiche (Cass. pen. sez. VI, n. 7515 del 26/5/1998, V., CED Cass. 211248), sicchè diviene irrilevante che, subito dopo la esibizione del documento di guida falso, gli operanti di polizia giudiziaria abbiano constatato il possesso in capo all′imputato della sua carta di identità, questa si autentica, da cui erano risaliti immediatamente all′inganno. Non può avere rilievo per la S.C., il precedente invocato dall′imputato (Cass. pen. sez. V, n. 33882 del 4/5/2017, M.V., CED Cass. 271609) relativo a fattispecie in cui solo incidentalmente si e affermata la valenza non di documento di identità dell′autorizzazione alla guida falsa trovata in possesso dell′imputato, senza meglio specificare di che documento di guida si trattasse e da quale autorità fosse stato rilasciato, ed in diverso contesto. Ciò in realtà per affermare il diverso principio secondo cui tra le ′altre qualità, cui si riferisce l′art 495 c.p., rispetto alle quali il mendacio può configurare il reato previsto da detto articolo, sono soltanto quelle che servono a completare ′lo stato′ e la ′identità′ della persona, sicchè la patente di guida, concretandosi in una semplice autorizzazione amministrativa, cioè in un rapporto fra il soggetto e la pubblica amministrazione, non incide sullo stato e l′identità e pertanto non conferisce al soggetto una qualità personale nel senso richiesto dell′art 495 c.p. (Cass. pen. sez. V, n. 647 del 3/4/1970, G., CED Cass. 115622; nella stessa ottica si muove Cass. pen. sez. V, n. 4243 del 15/11/2012, D.V., CED Cass. 254564). Nella fattispecie sottoposta alla Cassazione, invece, non vi era dubbio che la patente di guida utilizzata dall′imputato per identificarsi al controllo di polizia fosse documento con valenza di prova dell′identità personale del possessore, come tale utilizzato a fini identificativi, mentre non si discuteva della sua rilevanza di mera autorizzazione amministrativa quanto alla attestazione di abilitazione alla guida, che non rientra, questa si, nelle qualità personali di cui al reato previsto dall′art. 495 c.p. Del resto, la giurisprudenza di legittimità ammette pacificamente da tempo che la patente di guida sia documento valido ai fini dell′identificazione personale e, pertanto, suscettibile di integrare le fattispecie di reato che prevedono tale condizione come loro presupposto di configurabilità (cfr. Cass. pen. sez. V, n. 57004 del 27/9/2018, B., CED Cass. 274172, in una ipotesi in cui, addirittura, si fa riferimento a patente di guida di uno stato estero per la quale non sussistano le condizioni di validità ai fini della conduzione di un veicolo in Italia; Cass. pen. sez. V, n. 21929 del 17/4/2018, R., CED Cass. 273022; Cass. pen. sez. V, n. 3711 del 2/11/2011, dep. 2012, B., CED Cass. 252946; Cass. pen. sez. V, n. 21231 del 20/2/2001, M., CED Cass. 219029). Da qui, dunque, l′inammissibilità del ricorso.